Fino a qualche mese fa, tutte le minacce sanitarie riguardavano paesi quasi sempre lontani, in genere poveri, con condizioni economiche e sanitarie disastrate. Ora però il Covid 19 ha colpito, devastandole, anche le nostre società avanzate, con sistemi sanitari teoricamente in grado di far fronte ad una pandemia. Il Coronavirus, inoltre, si è dimostrato un agente patogeno “democratico”, capace di colpire tutti, paesi sviluppati e non, chi vive in un attico e chi vive negli slum, economie avanzate e quelle arretrate anche se i paesi più svantaggiati e poveri pagheranno sicuramente il prezzo più alto in termini umani ed economici. C’è peraltro da dire che queste realtà con problemi cronici di siccità, conflitti armati, epidemia come Ebola e colera presentano una maggiore familiarità con eventi avversi: sono più “attrezzati” psicologicamente di noi. In questo panorama, dunque, nessuno può essere e sentirsi immune dalla minaccia. Tale percezione di fragilità e di instabilità, con la paura conseguente, non è che l’inizio, l’avvisaglia dell’onda lunga di un nuovo tsunami con cui ci dovremo confrontare psicologicamente nei prossimi mesi e forse anni, anche e soprattutto, quando il peggio, da un punto di vista strettamente sanitario, sarà alle spalle.
All’inizio, nella fase acuta, abbiamo assistito all’attivazione dei meccanismi di risposta allo stress che però sono temporanei e tendono, perdurando la situazioni di sofferenza, a esaurirsi. Prova ne sia quello che si è verificato nelle nostre città: canti dai balconi, ritorno del'”ottimismo bellico” (andrà tutto bene!), flash mob sui social, lezioni gratuite di Yoga, giardinaggio, Meditazione, etc. A questo ne è seguito, man mano che aumentavano i giorni di quarantena, il suo esaurirsi, una fase di silenzio, un ritrarsi all’interno del proprio confinamento, un sentire nuovamente il canto degli uccelli “trattenendo il respiro perché il virus non ci uccida”.
Sebbene sia stato sostenuto giustamente che la metafora della guerra nell’attuale pandemia non sia calzante, le cause e relativi effetti psicologici sono simili: incertezze anche economiche, minaccia della propria sopravvivenza e lutti con aumento di sindrome postraumatica da stress, stati d’ansia generalizzata, depressione e l’attivarsi di condizioni di disturbo bipolare. Al pari di quanto avviene in guerra non è il combattimento lo stress maggiore, ma la perdita della possibilità dello svolgersi della vita abituale. Come evidenziato in un lavoro dello scorso anno pubblicato dall’autorevole Lancet, in situazioni belliche la percentuale per tali condizioni psicopatologiche si stima possa raggiungere tra il 20 ed il 25 % della popolazione coinvolta, oltre il doppio di quanto avviene in condizioni normali. Ora, se teniamo presente la vastità della popolazione coinvolta, gli innegabili effetti mondiali su modalità di produzione dei beni, mobilità, relazioni sociali etc, è facilmente prevedibile un vero e proprio tsunami. A tutti livelli.
L’incertezza percepita, infatti, è esacerbata da una serie di fattori: mancanza di uniformità delle proposte dei cosiddetti “esperti”, una classe politica, evidentemente non all’altezza del dramma che stiamo vivendo, con un comportamento ondivago, la mancanza di leadership condivisa, la sua incerta durata. Basterebbe, a questo proposito, confrontare le raccomandazioni proposte da un articolo del Lancet, citato più avanti, per minimizzare gli effetti della quarantena a breve e lungo termine e le scelte fatte almeno a livello italiano:
- L’informazione è il punto centrale: le persone in quarantena hanno bisogno di informazioni esaustive per capire quanto sta succedendo e quanto durerà.
- È essenziale che la comunicazione sia efficace, univoca e rapida.
- Devono essere garantite i dispositivi personali di protezione e assistenza sul territorio.
- La quarantena deve essere il più corta possibile, bilanciando gli innegabili vantaggi con i danni economici, sociali e psicologici che appaiono ormai definiti ed evidenti.
- La maggior parte degli effetti negativi provengono dall’imposizione della restrizione delle libertà individuali. Una quarantena volontaria è associata con una minore sofferenza psicologica e minori effetti negativi a distanza di tempo.
La crisi attuale sembra caratterizzata dalla mancanza di aspetti compensativi. Quest’ultimo mi sembra da sottolineare: in altre crisi c’erano uno o più aspetti che potevano rappresentare dei galleggianti a cui appoggiarsi: c’è una crisi sanitaria ma il lavoro è sicuro oppure c’è la disoccupazione ma gli ammortizzatori sociali funzionano. Nella condizione attuale non c’è in tutto il panorama un aspetto che possa rappresentare una “sponda” sicura. Tutto questo genera incertezza e la mente umana ha bisogno di scenari certi, anche se ipotetici: nulla di tutto questo.
In questa situazione, la nostra società formata da chi ha paura, da chi assiste i propri malati, da chi piange i propri morti senza poterli accompagnare alla sepoltura, da chi ha perso il proprio lavoro anche se precario, si trova in quarantena da quasi due mesi. Proprio la perdita del lavoro o di attività commerciali avviate, in un mondo come il nostro in cui la condizione lavorativa e lo status sono fortemente caratterizzanti, determina una perdita di senso e di valore. È facile possa sorgere un atteggiamento in cui si cerca il colpevole, si propongono teorie complottiste, etc.
Un altro recente pubblicato dal Lancet ha infatti messo in evidenza che lo stato di quarantena determina alterazione dell’umore nel 73% e irritabilità nel 57% . Dopo solo 10 giorni di quarantena è possibile notare un aumento delle sindrome postraumatica da stress a distanza di mesi. La quarantena provoca inoltre confusione, rabbia e ansia. L’analisi di quanto successo in Cina durante i primi 15 giorni di quarantena ha messo in evidenza:
- Il 53,8% ha presentato psicologici da grado moderato a severo
- Il 28,8% ha presentato ansia di grado severo
- Il 16,5% depressione da moderata a severa
- Il 8,1% ha presentato sintomi da stress (tachicardia, disturbi del comportamento alimentare, etc.
Un ulteriore aspetto che mi sembra vada sottolineato è quello dalla gestione della morte. Nella situazione attuale, con la conseguente impossibilità di procedere a quei riti, anche laici, che possano aiutare a chiudere psicologicamente il lutto. C’è una sorta di congelamento delle emozioni, uno stare sospesi con un aumento dei lutti non risolti. Ci sarà bisogno alla fine di tutto questo di un momento di cordoglio condiviso, come dice Marina Sozzi autrice di” si può dire morte”, qualcosa di simile a quanto successo un secolo fa per il milite ignoto.
In questo panorama, per oggi e per domani, quello che emerge in modo prepotente nel nostro orizzonte emotivo è il senso di perdita. La sofferenza e la depressione legate alle perdite reali, quella dei nostri morti, quelle delle altre dimensioni: la perdita del lavoro e del proprio status, e quelle infine dovute alle precedenti condizioni di vita. Sia che viviamo soli o in famiglia ci troveremo a doverci confrontare con la mancanza di prospettive, sogni e aspettative. Perdita di beni, proprietà, affetti, lavoro, e relazioni. Ci sarà bisogno di ricreare, dando senso a quanto si è perso; certamente con nuovi valori e nuove idealità.
Da quanto si è detto e dalle precedenti esperienze sappiamo che l’impatto economico di una pandemia, in senso psicopatologico, è peggiore e di maggiore durata di quello di una guerra. La crisi economica del 2009 ha aumentato la depressione del 18%, l’ansia del 8% e l’abuso di alcol del 5%. Dobbiamo ricordare che l’economia si può riprendere le vite no, se non mettiamo in atto delle strategie di intervento soprattutto nei confronti dei più deboli, frequentemente neppure raggiunti dalle reti di protezione sociali e spesso senza possibilità e neppure capacità di chiedere aiuto.
Finiti gli effetti della pandemia, dovremo affrontare il dolore dei sopravvissuti, il burnout del personale di assistenza, medici e infermieri, le famiglie dei disoccupati. Dovremo educare le persone alle nuove sfide che li attendono, a dare un nuovo senso alle loro vite.
… non sarà facile