Non sono un economista, non sono un virologo, non sono un epidemiologo. Vero. Dunque non entrerò nel merito delle misure annunciate, sui rischi delle varie ipotesi di riapertura, etc. Tuttavia, ho un’esperienza di oltre 40 anni di vita ospedaliera e da anni faccio corsi per aiutare i medici a comunicare con i pazienti: come impostare la relazione terapeutica ed evitare comportamenti che ne minino alla base la fiducia, come usare le parole per dimostrare interessamento e preoccupazione, come essere onesti con se stessi e con il paziente, come dare cattive notizie “abitando lo spazio” molto piccolo che sta tra l’empatia e la verità con la capacità di contemperarle entrambe.
Come si diceva da bambini, facciamo che il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte era il medico chiamato al capezzale di un paziente grave, l’Italia, e prendiamo l’ultima conferenza stampa del Nostro che doveva annunciare la fase 2.
La premesse di qualche settimana fa era quella di ottemperare alle misure indicate per evitare il diffondersi della pandemia per poter andare incontro all'”avanzare di una bellissima primavera”. Tra l’altro, veniamo a sapere di un piano, mai messo in pratica, che sarebbe stato pronto alla fine di gennaio; piano in cui si prevedevano scenari catastrofici in termine di morti, sanità al collasso, e disintegrazione del tessuto sociale e produttivo. Bene. Questo piano, ci viene detto, non è stato comunicato per evitare che si verificasse il panico nella popolazione nazionale. SE questo piano era pronto, perché si è atteso quasi un mese per ottenere i famosi dispositivi individuali di protezione (vedi mascherine) e quelli ospedalieri (vedi respiratori)? Venendo alla nostra simulazione è come avere un paziente con una grave compromissione dello stato di salute e non provvedere ad attivare tutti quei mezzi atti a rispondere alla minaccia ( esami, ricovero in terapia intensiva, etc etc.). Insomma, questo era lo scenario. Ora il Nostro si è rivolto al solito orario, 20:20, per intercettare il massimo “assembramento” dei telegiornali che stanno finendo e quelli che stanno per cominciare, per rivolgere il suo messaggio “all’inclito e al volgo”. Vediamo come è andata la comunicazione … medico-paziente nell’inizio della fase 2 (o 1,5?)
Colpisce subito l’atteggiamento paternalistico e presupponente, che tanto e giustamente contestiamo ai medici, di chi dice “io so quello che bisogna fare e voi non capite niente”. Mettersi sul piedistallo non è una buona partenza, dato che dimostra scarsa considerazione delle condizioni del Malato e del suo stato di sofferenza psicologica, emotiva, sociale, economica etc sua e dei parenti. Non solo, ma evidenzia anche la scarsa considerazione nella loro capacità di capire la situazione: meglio non vi dica quanto sta male perché non siete in grado di affrontare quanto sta avvenendo. Primo errore, grave.
Di fronte ad un malato in condizioni serie è buona norma mettere sul tavolo, davanti a paziente e familiari, tutte le informazioni che abbiamo, i risultati delle analisi ed eventuali altri accertamenti e dopo, solo dopo, esporre le terapia proposta, gli effetti positivi e negativi delle cure, fare una prognosi, una previsione di quello che può succedere e le possibilità di guarigione. Nella nostra simulazione tutto questo non c’è stato. Si sono annunciati dei provvedimenti senza illustrare lo scenario di partenza, il razionale della terapia proposta, gli attesi benefici. Nessuna spiegazione addotta, salvo far filtrare, dai recessi ombrosi della comunicazione, il documento del famoso Comitato Tecnico Scientifico in cui si ipotizzava, nel caso di apertura totale, la necessità di ben 150.000 posti di rianimazione (circa 50.000 in tutta Europa). È come un medico che dopo aver parlato, in modo nebuloso, ai parenti di un paziente grave va dalla Capo Sala e le dice: diglielo tu che non arriva a domani. Il parlare in modo chiaro, esponendo, dunque, tutti i dati in nostro possesso serve a stabilire quella fiducia in base alla quale capiamo di essere trattati da adulti e non da bambini dell’asilo. Secondo errore, gravissimo.
Nei protocolli validati a livello internazionale di come “dare cattive notizie” ci sono aspetti che il Nostro avrebbe fatto bene a tener presenti. Oltre a quelli indicati ce n’è un altro che mi sembra sia mancato. A tutti i medici che fanno un lavoro clinico è capitato di non essere in grado di dare con certezza una diagnosi, per la mancanza di un quadro clinico chiaro: è quello che succede con il Covid 19. È un virus di cui sappiamo poco, di cui non è chiara la capacità di mascherarsi, la sua provenienza, la sua residenza alle temperature estive, la durata e l’efficacia dell’immunità successiva all’incontro con il virus stesso, etc etc. Sarebbe stato onesto ammettere la propria ignoranza non colpevole come quella dei tanti esperti chiamati al capezzale del paziente non a caso spesso in disaccordo. Ugualmente sarebbe stato onesto ammettere le proprie incapacità di riuscire a mettere in atto quelle misure che, sole, possono fotografare la situazione reale e indicare il percorso da intraprendere. Mi riferisco ai tamponi e/o dosaggi anticorpi. Terzo errore, grave.
“Pur con la simpatia che ci induce il suo trovarsi difronte ad una situazione straordinaria e francamente eccezionale, non possiamo dare come superato la sessione d’esame in oggetto “comunicazione medico-paziente”. Dal verbale d’esame.