Dice Grice della comunicazione: è “una attività razionale, cooperativa e finalizzata al raggiungimento di uno scopo”. Dunque utilizziamo la comunicazione con gli altri per tantissimi e differenti scopi: dare informazioni su di noi, sul nostro mondo interno e dunque su come stiamo e sulle nostre emozioni, sui nostri bisogni e necessità, sulla relazione che intercorre con la persona con cui stiamo comunicando, etc. Allo stesso tempo, utilizziamo la comunicazione per far fare qualcosa, per ottenere informazioni su qualcosa che per noi è importante o per condividere informazioni in nostro possesso. Da tutto questo emerge l’ennesima conferma che l’uomo è un animale profondamente sociale, che fa dello scambio di informazioni la ragione del proprio successo sulle altre specie. Non può sfuggire quanto il lock down abbia frustrato questa necessità fondamentale dell’essere umano.
Ora, sappiamo che la comunicazione ha due vie: quella verbale, quanto diciamo con le parole, e quella non verbale che viene veicolata attraverso una serie di canali: la voce con tutte le sue caratteristiche quali tono, volume e variabilità, il grado di vicinanza al nostro interlocutore, le espressioni del volto, lo sguardo, la postura e i movimenti degli arti e soprattutto delle mani etc. Sappiamo da anni di ricerche che le informazioni veicolate dalle parole e dalla comunicazione verbale hanno un minor valore e sono ritenute meno veritiere da quelle che passano attraverso il linguaggio non verbale. Anzi, in caso di discordanza, crediamo di più a quest’ultimo rispetto al linguaggio verbale. Questo spiega perché, a volte, parlando con qualcuno riportiamo un senso di fastidio e finiamo per non credere a quanto il nostro interlocutore ci sta dicendo: i due canali non sono in sintonia. Anche perché la comunicazione “viaggia” contemporaneamente attraverso queste due modalità, con la comunicazione non verbale a fare da contrappunto e da accompagnamento, confermando, sottolineando, disconfermando, sminuendo, colorando emotivamente quanto stiamo affermando con le parole. Non solo, fatto uguale a 100 la mole di informazione che viaggiano tra due persone, la quantità che va fatta risalire a quella non verbale raggiunge una percentuale compresa, a seconda dei casi, tra il 60% ed il 75%; è evidente come la comunicazione verbale rappresenti una quota minoritaria.
Cosa succede quando abbassiamo artificialmente la quantità di informazioni che viaggiano, ad esempio, attraverso il tono di voce? Inevitabilmente le altre modalità verranno potenziate. Lo stesso avviene quando non vogliamo usare ad esempio le mani la loro informazione apparirà attraverso gli occhi o il movimento delle gambe. Tanto che Watzlawick sostiene che non è possibile non comunicare: comunichiamo anche attraverso il silenzio. Altro esempio è quello degli emoticon, le famose faccine che hanno proprio la funzione di aggiungere delle informazioni, emotive appunto, ad un testo scritto per farne capire il contesto, migliorarne l’intelligibilità, comunicare uno stato d’animo, etc: esattamente quanto fa l’espressione del viso o il movimento delle mani.
Come il Covid 19 ha cambiato il nostro modo di comunicare? Cosa ha comportato vedere solo parzialmente il viso del nostro interlocutore, stante il fatto che noi percepiamo come un tutt’uno le informazioni che occhi, sorriso, bocca, atteggiamento e movimenti della testa?
Una prima osservazione, come abbiamo già detto, è che tendiamo ad incrementare le altre vie comunicative ad esempio gli occhi. È noto a chi ha esperienza di paesi mussulmani, soprattutto quelli più tradizionalisti come l’Arabia Saudita in cui è diffusa l’uso del niqab velo che lascia scoperti solo gli occhi, la grande espressività di questi ultimi. Quando gli occhi sono l’unico modo possibile di comunicazione non verbale, lo sguardo si carica di enormi possibilità espressive. Così anche noi, in periodo di “mascheramenti”, usiamo di più gli occhi e le altre modalità non verbali. Come mi ha riferito un paziente, “la sera, da quando è finito l’isolamento, avverto un fastidio, una sorta di stanchezza alla fronte e intorno agli occhi. Dopo qualche giorno ho notato la tendenza a usare di più lo sguardo e le espressioni degli occhi per comunicare: mettevo in azione muscoli che prima usavo di meno. Non solo forzavo le espressioni del viso come il sorriso in una sorta di trascinamento degli occhi per aumentarne l’espressività. Allo stesso tempo, anche la voce era cambiata nel senso di una maggiore variabilità del tono accompagnata da maggiore uso delle mani e del corpo in generale”. Dopo questo racconto, ho notato anche su di me queste modificazioni.
Un altra osservazione che mi viene da fare, rivedendo la registrazione di alcune sedute di psicoterapia, è il fastidio percepito nel vedere solo il viso del paziente se lo schermo era molto vicino al volto, impedendomi di vedere le altre parti del corpo; quasi una sorta di frustrazione nel non poter percepire gli altri segnali che rendono la comunicazione più raffinata e precisa. Allo stesso tempo, durante la seduta, senza rendermene conto cercavo di far vedere le mani, alzandole per renderle più visibili.
Venendo al titolo di questo post, abbiamo bisogno di vedere “la pancia che si muove” del proverbio cinese; in altre parole, raccogliere e inviare i segnali non verbali non è qualcosa di ridondante ma una necessità primaria. Se alcuni segnali diventano inutilizzabili, altri vengono potenziati.
Se la sera vi viene il mal di testa, ora sapete il perché.